Rotary | Ottobre 2013 - page 59

IL PROGRAMMA DREAM
59 il programma dream
Ricordo Matthias.
La prima volta che era venuto al nostro
centro di cura era stato trasportato con una carriola dai suoi
parenti. Esseri umani trasportati così, ne avevo visti solo
per gioco. Da ragazzino ci giocavo anch’io con la carriola;
ci caricavo dentro i miei amici e facevamo le corse su e giù
per la campagna. Lo sguardo, gli occhi di chi era trasportato
e di chi trasportava comunicavano solo gioco, contentezza,
divertimento. Ma quella volta nella carriola c’era un uomo, un
adulto e non era un gioco: età indecifrabile, un corpo fragile,
magro, scheletrico, le guance scavate, gli occhi sbarrati che
comunicavano disperazione, rassegnazione, paura. Lo visitai
subito: lo adagiammo sul lettino e, come avrei fatto se fossi
stato di guardia al mio ospedale, gli feci mettere una flebo
di fisiologica. Matthias non parlava, muoveva solo le labbra
ma senza riuscire ad emettere alcun suono. Era affannato,
dispnoico; ogni suo respiro sembrava causargli una gran
fatica. Gli occhi grandi, enormi, spalancati, mi ricordavano
vagamente i volti delle icone della chiesa ortodossa copta.
Gli feci iniziare la terapia antiretrovirale subito, senza ne-
anche attendere i risultati delle analisi. Dissi poi a Joao di
riaccompagnarlo a casa in auto. Chi lo aveva portato al centro
di cura rimase quasi stupito di tale premura:
“Ma abbiamo la carriola” mi dissero come a volermi convin-
cere che il passaggio in macchina era un lusso inutile.
Joao caricò la carriola sulla parte aperta del pickup, Matthias
venne sdraiato sui sedili posteriori. Gli consegnammo oltre
alle medicine anche un pacco di mais, un litro d’olio, e un po’
di riso. Anche per lui fu attivato il servizio di assistenza domi-
ciliare: un nostro operatore andava a trovarlo tutti i giorni, si
accertava che prendesse correttamente la terapia, gli portava,
di tanto in tanto, anche un po’ di frutta.
Anch’io ero andato a visitarlo a casa, una baracchetta, non
molto lontana dalla casetta di Machava. Era adagiato su un
materasso logoro, fetido, faticava anche ad alzare il braccio
per salutare. La voce era flebile, incomprensibile. Aveva una
candidosi orale che gli rendeva difficoltoso deglutire anche
cibo liquido; era debolissimo ma estremamente determinato
nella sua ferma volontà di guarire. L’inizio della terapia gli
ha improvvisamente ridonato una speranza e, poi, un futuro.
Lo rincontro adesso, dopo sette mesi di terapia, mi viene
incontro camminando quasi speditamente.
“Mi riconosci?” mi dice.
“No – rispondo di getto – chi sei?”.
“Mathias!”
“Mathias?”.
Continuo a non ricordarmi.
“Quando ci siamo conosciuti?” gli chiedo.
“Qualche mese fa qui, anzi lì, in quella stanza” e mi indica
l’infermeria.
No, non mi ricordo, ma come faccio di tanto in tanto anche
con i miei pazienti fingo:
“Sì, certo, sono contento di rivederti, come stai?”
Matthias capisce al volo che sto recitando e mi dice una sola
parola: “La carriola. Te la ricordi?”
Un brivido mi percorre la schiena.
Rimango fermo, impalato, non so cosa da dire.
Lui mi guarda, gli occhi, sempre grandi ma non più scavati,
il volto sempre magro, asciutto ma sorridente. Il suo sguardo
è luminoso, non comunica più paura, tutt’altro. No, non mi
potevo ricordare. Davanti a me sembrava di avere un'altra
persona. Avevo incontrato un uomo agonizzante, impaurito,
senza speranza, e adesso davanti a me c’è un uomo con un
futuro, con una speranza, con un sorriso.
“Vieni – gli dico ancora incredulo – ti visito subito”.
“No – mi ferma – oggi non è il mio giorno di visita. Sono ve-
nuto solo per salutarti. Il controllo ce l’ho tra una settimana”.
Gli do la mano; lui me la stringe energicamente; poi forse ad
entrambi sembra troppo poco. Ci abbracciamo.
Il Racconto
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ICHELANGELO
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ARTOLO
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