GIOCHI DI PACE 31
favore, fermate la lotta”, disse poco pri-
ma dei giochi, durante una riunione dei
membri del comitato in Lillehammer.
Per favore, fermate il massacro. Depo-
nete le armi”.
Un altro passo avanti nel febbraio 2002.
La guerra in Bosnia è finita, e Saraje-
vo presenta un’offerta coraggiosa ma
improbabile, per ospitare le Olimpiadi
Invernali del 2010. Molti dei suoi edifici
sono ancora rovinati e inagibili, il suo
municipio ha un buco che lo attraversa,
e migliaia di rifugiati vivono in quello
che una volta era il Villaggio Olimpico.
Crediamo che sia possibile ottenere le
Olimpiadi di nuovo”, ha detto un uomo
appartenente a un comitato cittadino.
Possiamo farlo, non c’è problema”.
Sarajevo non ha ottenuto le Olimpiadi
Invernali del 2010. E neanche quelle del
2014,
e del 2018.
Ma i bosniaci di tutte le etnie guardano ai
giochi come se fossero più di una com-
petizione sportiva, o di un festival inter-
nazionale. Le vedono come un segnale
culturale, un simbolo, un’espressione
del passato, di un periodo ideale in cui la
Yugoslavia esisteva ancora e Serbi, Cro-
ati e musulmani andavano d’accordo.
Ora è il 2012.
Questo mese, si apriranno a Londra le
Olimpiadi Estive. Si attendono 10.000
atleti provenienti da 200 paesi, tra cui la
Bosnia. Tuttavia la Bosnia non è l’unica
ad aver conosciuto la guerra civile. C’
è
l’Afghanistan, l’Angola, El Salvador, l’E-
ritrea, l’Etiopia, il Guatemala, il Libano,
la Libia, e almeno una dozzina di altre
nazioni in cui, a causa del denaro, del
potere, della religione o dell’ ideologia,
vicini di casa, e anche fratelli, sono an-
dati in guerra uno contro l’altro.
I critici dicono che le Olimpiadi sono
troppo nazionaliste. Hanno ragione.
Spesso, le persone ripongono le loro
speranze collettive, così come i loro odi
e passioni, sulle prestazioni di un singo-
lo atleta. Ricordate Zola Budd, il bianco
mezzofondista sudafricano che si scon-
trò con Mary Decker, alle Olimpiadi di
Los Angeles nel 1984? In qualche modo
Budd, un tranquillo 18enne, divenne il
simbolo dell’apartheid e dovette essere
portato all’aeroporto sotto scorta arma-
ta.
Ma il nazionalismo può essere una buo-
na cosa, soprattutto quando paesi dila-
niati dalla guerra mandano i propri atle-
ti alle Olimpiadi, e questi atleti cercano
di riunire tutte le persone.
Nel 1992, Etiopi di tutte le etnie gioiro-
no quando la maratoneta Derartu Tulu
divenne la prima donna nera a vincere
una medaglia d’oro olimpica. Questa
fu una buona notizia per l’Etiopia dopo
anni di carestia e 17 di guerra civile.
Paddy Barnes, un pugile praticante cat-
tolico di Belfast, Irlanda del Nord, con-
quistò una medaglia di bronzo a Pechi-
no nel 2008. Un altro pugile locale disse,
Se vuoi combattere bene, non importa
da che parte della comunità provieni, la
gente di Belfast verrà fuori e ti soster-
rà”.
Nel 1984, Jure Franko, uno sciatore
jugoslavo dalla Slovenia, ha vinto una
medaglia d’argento nello slalom gigante
maschile. Fu l’unica medaglia della Ju-
goslavia a Sarajevo, e la prima medaglia
in un’Olimpiade Invernale. “Si andava
verso la fine dei giochi, e non avevamo
avuto medaglie”, mi racconta Franko.
La gente era salita sulle torri più alte,
urlava e cercava di toccarmi, per come
avevo condotto la gara. C’erano migliaia
di persone sulla collina e al traguardo.
Quando vinsi la mia medaglia, la gente
cominciò a saltarmi addosso, mi bacia-
va, praticamente mi tiravano da ogni
lato, e tutto ciò riuscii a fare fu ridere
e ridere. Grazie alla mia medaglia, una
medaglia per la Jugoslavia, improvvi-
samente aveva senso tutto quello che il
paese aveva fatto insieme per mettere
in piedi questi giochi. Aveva un senso
sentire tanta armonia, tanta pace, tanta
fratellanza come jugoslavi”.
Questo, per me, è ciò che sono le Olim-
piadi: pace e l’armonia tra stati, e fratel-
lanza tra i popoli.
Ecco perché, quest’anno, tiferò per la
Bosnia. Tiferò anche per la Liberia e il
Libano e anche per la Macedonia, e per
qualsiasi altro paese che accada abbia
bisogno di un Derartu Tulu, un Jure
Franko, o un Paddy Barnes.
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