ROTARY |
maggio 2012
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sto, pur nella realistica consapevolezza
della realtà quale essa è, la speranza
consente la necessaria spinta perché la
realtà sia riscattata, trascesa. Speranza
è emancipazione dalla tirannia di una
realtà che si accontenta di essere sol-
tanto ciò che è, sempre e solo uguale
a se stessa. È la capacità di vedere la
realtà in tutta la sua complessità, non
solo per ciò che essa è già, ma anche
per il possibile e per il futuro che da ciò
che è, rimangono velati. È il coraggio di
cogliere che oltre l’esistente in atto, al
suo interno, vi sono altre potenziali re-
altà che attendono - e ci attendono - pa-
zienti, o che spingono per poter venire
alla luce. Speranza è fede nel miracolo,
che, come ci avverte Hannah Arendt
- “
Non è l’evento soprannaturale, ma
solo l’evento che possiede il requisito
di ogni miracolo, sia opera umana o di-
vina; ossia il costituire un’interruzione
in qualche serie di eventi della natura,
in qualche processo automatico, rispet-
to ai quali il miracolo è, in assoluto,
l’inatteso imprevisto”. Con la nascita
ogni uomo irrompe nella vita. Ma non è
nato una tantum. La sua stessa umanità
lo chiama a rinascere in continuazione.
Ecco, questa sempre rinnovata rinasci-
ta è il miracolo, ed è ciò che contrasse-
gna l’umano esistere. L’essere umano è,
costitutivamente, essenzialmente mira-
colo. La vita umana, quando è davvero
tale, è imprevedibilità, è innovazione,
irruzione della novità e dell’inatteso là,
dove incombe l’implacabile ripetizione
dell’identico.
Ci si allena alla speranza? Certamente
sì. Non si nasce speranzosi, la speranza
non è scritta nel nostro codice geneti-
co. La speranza la si conquista, giorno
per giorno. Ci si esercita ad essa, la si
coltiva, la si difende. Sperare, in altre
parole, è un vero e proprio esercizio
spirituale. Richiede coraggio, senza
dubbio. Il coraggio di dire sì alla vita, al
suo crescere e dispiegarsi, nonostante
attorno incomba la presenza di ciò che
vorrebbe negarla e impedirla. Per sa-
per sperare occorre vincolarsi a quan-
to dice Calvino al termine de Le città
invisibili: “L’inferno dei viventi non è
qualcosa che sarà; se ce n’è uno, quello
è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i
giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accetta-
re l’inferno e diventarne parte fino al
punto di non vederlo più. Il secondo
è rischioso ed esige attenzione e ap-
prendimento continui: cercar e saper
riconoscere chi e che cosa, in mezzo
all’inferno, non è inferno, e farlo du-
rare, e dargli spazio”. Sentiamo spesso
ripetere che dalla crisi si può uscire
soltanto attraverso un’economia e una
politica dotati di rinnovata carica etica.
Se etica significa continua costruzione
di vitali relazioni con agli altri e aper-
tura responsabile al mondo, la speran-
za rappresenta il motore e il presup-
posto di qualsivoglia progetto etico.
Privo della tensione vitale che deriva
dalla speranza il mondo si rapprende,
le persone si chiudono, i sistemi orga-
nizzativi avanzano per inerzia. Privi di
speranza perdono in tensione morale,
si demoralizzano, cessano di cresce-
re. Non si proiettano più nel futuro e
ristagnano nel presente. E lentamente
si spengono.
Q
*
Alberto Peretti, filosofo, counselor filosofico
e formatore. Insegna Filosofia del Lavoro alla
Scuola Superiore di Counseling Filosofico di
Torino e Vicenza. Dirige MA, la rivista online
mondi del lavoro. è presidente dell’Associazione
Vita Eudaimonica. Tra i suoi scritti: Il dubbio di
Amleto. Il Gioco come modo di pensare, senti-
re, agire (2001); I giardini dell’Eden. Il Lavoro
riconciliato con l’esistenza (2008); La sindrome
di Starbuck e altre storie. Il lavoro attraverso la
letteratura (2011)
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