

quel momento le mie fotografie divennero sempre più richieste
e apprezzate, cosicché iniziai a lavorare per “The Associated
Press”, “New York Times”, “Time”, e altri ancora. Entravo e
uscivo dal Paese senza sosta.
“La fotografia è come
un’arte recitativa. Non sei
mai fermo: devi correre,
saltare e muoverti in
continuazione”.
Le foto di questi viaggi stabilirono la sua reputazione, e nel
1980, all’età di 30 anni, vinse il prestigioso premio “Robert
Capa” per il miglior report fotografico estero. Mentre faceva pro-
getti in altri Paesi, l’Afghanistan la richiamò. Nel 1984, mentre
stava visitando il campo profughi lungo il confine tra Pakistan e
Afghanistan, notò una ragazza di dodici anni in una tenda polve-
rosa che veniva impiegata come scuola. Cosa la attirò?
La vidi e subito capii che aveva uno sguardo speciale, un volto
incredibile. Aveva degli occhi verde-blu molto penetranti. Fo-
tografai altre ragazze nella classe, ma sapevo che lei sarebbe
stata importante. Eppure la fotografai solo per un paio di
minuti. L’immagine sembra immobile, ma intorno a lei si muo-
veva tutto. La fotografia è come un’arte recitativa. Non sei mai
fermo: devi correre, saltare e muoverti in continuazione. Devi
essere veloce a scattare la foto buona.
Considerate tutte le attenzioni che la sua foto ottenne dal “Na-
tional Geographic”, pensa che cambiare il pensiero della gente
su quello che sta accadendo in Afghanistan, possa essere
d’aiuto per rendere questa situazione più facile da raccontare?
C’era una tale dignità nel suo sguardo: credo fosse coraggio,
determinazione. Penso che in quel suo sguardo fisso e diretto
trapeli molto orgoglio, perché lei non aveva paura. La sua
espressione è imparziale: non ha un volto corrucciato, non sta
sorridendo, ma c’è molto di più di un piccolo sguardo, forse
curiosità nell’essere fotografata. Era un’orfana e una rifugia-
ta. Conduceva una vita molto dura. Per questo penso che
l’ambiguità e la miscela di emozioni abbiano aiutato a creare
2017
31 photo contest