Rivista Rotary | Settembre 2014 - page 37

natale, ma che certo trovava un humus culturale profondo e
attivo in tutta l’Europa di fine Ottocento.
La storia dell’idea di pianificazione linguistica porta lonta-
no, e negli inizi del Novecento trova terreno fertile di svi-
luppo: fondata a Parigi il 17 gennaio 1901 a seguito della
Exposition che aveva pure sensibilizzato al problema della
comprensione internazionale, la Délégation pour l’adoption
d’une langue auxiliaire internationale, che propugna l’idea di
una lingua ausiliaria internazionale e intende determinarne
i criteri, nel 1907 riconoscerà (al comitato prendono parte,
fra gli altri, linguisti del calibro di Jespersen, De Courtenay,
Schuchardt, Ostwald e, almeno epistolarmente, Meillet) la
validità dell’Esperanto, anche se in forma revisionata, mentre
parallelamente all’American Philosophical Society e al rico-
noscimento del tema da parte di altre realtà internazionali
(dall’International Research Council, con sede a Brussel, alla
British Association for the Advancement of Science), un ruolo
peculiare si guadagnerà, a iniziare dagli Anni Venti, l’Interna-
tional Auxiliary Language Association (IALA), che opererà con
ininterrotto fervore dal 1924 al 1953. La necessità di una
lingua comune si impone, nel primo quarto del secolo, con
tale imprescindibilità che la Società delle Nazioni arriverà ad-
dirittura a tributare, nell’ordine del giorno del 20 settembre
1924, un riconoscimento di tutto rilievo per la “creatura” di
Zamenhof.
Del discorso programmatico di quella giornata, impossibile
non riportare almeno, per excerpta, gli aspetti ideali più
significativi: “Nella piccola città della costa francese sono
convenuti uomini delle più diverse terre e nazioni; ed essi si
incontrano non come muti e sordi, ma si comprendono l’uno
con l’altro, si parlano l’uno con l’altro come fratelli, come
membri di una sola nazione […] noi tutti stiamo su un fon-
damento neutrale, noi tutti abbiamo gli stessi identici diritti;
noi tutti ci sentiamo membri di una sola nazione, membri
di una sola famiglia, e per la prima volta nella storia dell’u-
manità noi – membri dei più diversi popoli – stiamo l’uno
accanto all’altro non come stranieri, non come concorrenti,
ma come fratelli che, non imponendo l’uno all’altro la propria
lingua, si comprendono tra loro, non hanno sospetto l’uno
dell’altro per una oscurità che li divide, si amano l’un l’altro
e si stringono la mano non ipocritamente, come straniero a
straniero, ma nella sincerità, come uomo a uomo. [….] Dopo
molti millenni di sordo-mutismo e lotta reciproci, ora a Boulo-
gne-sur-Mer inizia di fatto in massimo grado la comprensione
e l’affratellamento reciproci dei membri delle diverse nazioni
dell’umanità”.
“Il sogno di millenni – dirà Zamenhof – comincia a realizzar-
si”, un sogno che prende forma in un “giorno benedetto”. Ec-
co allora che, all’interno di tale contesto, il focus del discorso
vira dal piano linguistico a quello ideale, in perfetta linea
con l’idea dello storico del movimento esperantista Edmond
Privat che, affermando come “krei novan lingvon estas kvazaŭ
iniciati novan religion”, palesava l’esistenza di un motivo
profondamente ed ineludibilmente etico alla base del movi-
mento delle origini; in estrema sintesi, l’ideazione di una lin-
gua universale, strumento privilegiato di comunicazione per
l’umanità, sarebbe dovuta essere, agli occhi del suo invento-
re, solo il primo passo di una riflessione ben più ambiziosa:
l’Esperanto sarebbe stato solo un viatico per il contributo alla
creazione, nel mondo, di una cultura comune, di un sentire
comune, di una comunione d’intenti. Se l’Esperanto si offriva
come pontolingvo, seconda lingua planetaria che – concepita
come medium – avrebbe dovuto tutelare le varie altre del
pianeta e anzi (paradossalmente) promuoverle, allo stesso
modo una nuova cultura mondiale – basata sui fondamenti
della tolleranza e della reciproca comprensione – avrebbe
contribuito al migliore rapporto fra i popoli offrendosi come
terreno comune in cui ognuno, pur nella propria diversità, si
sarebbe inserito in un rapporto rispettoso e costruttivo con
gli altri. E il conflitto più aspro fra culture, tema privilegiato
e massima preoccupazione di Ludovico Lazzaro, si sarebbe
manifestato, alla fine, in ambito religioso: allargando l’ottica
e generalizzandone il processo, solo una ponto-religio, nei
medesimi termini dell’Esperanto, avrebbe aiutato il progresso
dell’Umanità.
Non stupisce allora che, a chiusura del discorso, e in apertura
ai “lavori del nostro congresso, dedicato a un vero affra-
tellamento dell’umanità”, il Majstro proponga qualcosa di
straordinariamente eterodosso: “In questo momento solenne
il mio cuore è pieno di qualcosa di indefinibile e misterioso, e
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